La storia di Giuseppe
Giuseppe Mazzola è il nonno del mio amico Lorenzo. Classe 1925. Nel 1944 aveva soltanto 19 anni! Lui è uno degli ultimi testimoni della generazione che ha combattuto la Seconda Guerra Mondiale e che ha partecipato alla liberazione dell’Italia! Grazie a uomini e donne come lui possiamo oggi vivere in una Repubblica Democratica, piena di controsensi e crepe profonde, ma pur sempre “libera”! Giuseppe è ancora vivo e ce lo racconta, molti altri hanno sacrificato la loro giovane esistenza ed io mi sento profondamente a loro riconoscente. Quello che mi appassiona di questa storia è l’unione del racconto personale con la Storia, quella studiata sui libri di scuola, quella che sembra così lontana ma che in realtà ancora condiziona il nostro presente. Ciò che mi piace di questa storia è che non ci sono giudizi, ideologie o preconcetti: è solo il ricordo di Giuseppe, è solo la storia di uomo!
Ringrazio Giuseppe e il nipote Lorenzo per la gentile concessione e CTRL Magazine che l’ha pubblicata.
Solo un uomo

1947, Giuseppe Mazzola al tiro a segno della Fiera di Celadina. Quando si faceva centro un meccanismo automatico scattava la foto
“Gli iscritti di leva arruolati ed i militari in congedo che durante lo stato di guerra e senza giustificato motivo, non si presenteranno alle armi nei tre giorni successivi a quello prefisso, saranno considerati disertori di fronte al nemico, ai sensi dell’articolo 144 CPM e puniti con la morte mediante fucilazione al petto “
7 febbraio 1944
Rodolfo Graziani, Ministro della Difesa della Repubblica Sociale Italiana
VILLA D’ADDA – MILANO – SENNELAGER

Giuseppe Mazzola nel 1933, a 8 anni
Mi ricordo ancora com’era fatta quella donna: portava i pantaloni, non la gonna, e dalla tasca gli sbucava un fiocchino rosso. Mi dà l’altolà. Tira ’sto fiocchino e salta fuori una rivoltella, una Mauser 765. Me la punta addosso e mi dice «adesso vieni con me». Era una partigiana.
Mi porta dai compagni: io non riesco a spiccicare parola, loro iniziano a discutere di uccidermi.
Tra questi c’era uno che mi conosceva, era nella mia stessa compagnia quando ci avevano spedito nel campo di addestramento in Germania; lì faceva il parrucchiere.
“No chesto che el conose, l’è ol Mazzola, è una brava persona, l’è mia ù fascista!”
Portavo addosso ancora l’uniforme della Repubblica di Salò quando ero scappato dal fronte. Scappavo dai repubblichini e per poco non finivo ucciso dai partigiani! Sono stato fortunato.
Un anno prima – era il febbraio del 1944 – da Villa d’Adda partimmo per Milano e da lì, con zaino fardellato, ci caricarono su un treno – la destinazione non la conoscevamo – a bordo di vagoni bestiame senza sedili, senza bagni, niente. Su quei vagoni di solito ci stanno 4 cavalli. Noi eravamo 40 soldati. Dopo due giorni e due notti arrivammo al campo di addestramento di Sennelager, vicino a Paderborn, a nord di Colonia: era enorme, accoglieva due divisioni: una divisione, di solito, è composta da più di 12 mila uomini.
Faceva freddo, pioveva sempre, non ho mai visto un giorno di sole. Ma si era obbligati ad arruolarsi e partire.

Cadestore, frazione di Villa d’Adda, 1938 – Il bambino sulla sinistra con una pagnotta in mano è Carlo, scomparso in Russia nel 1943. Alla destra di Giuseppe (il terzo da sinistra) c’è il padre Camillo. Alla sua sinistra la sorelle Teresa, Adele e Anita e il fratello Rizieri. La famiglia viveva nella casa di cui si scorge una parete sulla destra.
LA GIORNATA NEL CAMPO D’ADDESTRAMENTO
La giornata al campo iniziava alle 5. Un’ora dopo, la rivista: controllavano uniforme, pulizia, rasatura. C’era uno di Villa d’Adda, un certo Colombo, che si faceva la barba ma ne dimenticava sempre qualche pizzico. I tedesch, con la pinza, gliela staccavano pelo per pelo. Gli venivano certi lacrimoni, ma sempre sull’attenti!
Poi si partiva per l’addestramento nei boschi, 7 km all’andata, 7 al ritorno. Per chi era bravo ai tiri c’era il doppio rancio: io sparavo bene e i Mauser tedeschi erano fucili stupendi, precisissimi.
Per pranzo c’erano delle robe che assomigliavano ai pan carré: però neri, di segale. Non sapevano di niente. Un filone per 7 soldati: tagliavamo le fette e quando ne usciva una un po’ più alta la mettevamo a sorte. Raccoglievamo le briciole con un foglio e le mangiavamo alla fine. Poi c’era il riso che bolliva nei pentoloni dal mattino: diventava come una colla, ce ne davano un mestolino. Avevamo una sigaretta al giorno: 30 consegnate all’inizio del mese, si chiamavano “Regie 3 e 1/3”, era scritto sulla cartina.
I fascisti non li odiavo, mi erano indifferenti: al campo ci facevano intonare le loro canzoni durante le marce. Io muovevo la bocca ma non cantavo; un giorno mi si affianca un tedesco in bicicletta: l’o mia est sto tedesc, bisognava guardare sempre avanti, e lù l’ha capit che me fae anda’ a doma la boca ma cantae mia.
Mi urla: “Komme hier”, vieni qui. “Liegen!” a terra. “Auf maβ marsch!”, e dovevo correre per recuperare la compagnia. Liegen! Auf maβ marsch! Liegen! Auf maβ marsch!
A un certo punto non ce la facevo più.
Questo inizia a prendermi a calci. Mi prende il sottogola dell’elmetto – mi strangolava – ma io davvero non ce la facevo più.
DA SENNELAGER AL FREJUS

Fine 1944, a Bardonecchia/Frejus con, alla sua destra, un compagno d’armi del corpo degli alpini.
Quando mi hanno spedito al fronte, finito l’addestramento, ero mitragliere.
Avevo imparato a usare la Maschinengewehr 42. La motosega di Hitler, la chiamavano.
Caricatore a nastro, 1200 colpi al minuto. Uno teneva il treppiedi piantato per terra – dopo un po’ scottava – e l’altro sparava; si poteva usare in tre posizioni: a terra, in ginocchio o in piedi. Era bestiale.
Il giorno in cui sono passato a combattere con loro, i partigiani m’hanno chiesto: “cos’hai imparato a fare in Germania?” E io: “il mitragliere”.
Mi hanno dato una mitragliatrice FIAT: 60 colpi al minuto. Pem, un colpo, pem, un colpo, pem, un colpo… Madona, c’era da piangere, abituato com’ero con l’altra!
Comunque, dal campo di Sennelager siamo venuti via al principio del ’45 con un altro treno. Eravamo contenti perché pensavamo di arrivare a Milano, finalmente. Invece, durante il viaggio, scoprimmo che la linea a cui eravamo diretti era quella del Frejus. Scendemmo a Novara. Poi Bardonecchia, e qualche giorno dopo eravamo sul colle Frejus, che è a metà strada rispetto alla vetta, 2500 metri, più o meno. Lì c’era un appostamento e siamo restati otto giorni. Poi ci hanno mandato a dare il cambio ai tedeschi, sulla punta Frejus, quasi a tremila metri. C’era un bunker, che iniziava con una galleria di ghiaccio e finiva in una grotta scavata nella roccia; per dormire c’era la paglia ed era tutta macinata dai corpi dei tedeschi. La notte non si potevano fare fuochi, per non svelare la posizione. E la paglia era piena di pidocchi. Le corvées arrivavano una volta alla settimana coi viveri.
NIENTE PAURA, IO AVERE CANNONE
Avevo otto fratelli: uno è morto bambino; un’altro del ’24, è stato sul Piccolo San Bernardo; è tornato a casa prima dell’arrivo degli Alleati, grazie a mia sorella: è andata a prenderlo con un falso documento che diceva che nostra madre era gravemente malata. Gli accordarono 3 giorni di licenza…ed è a casa ancora adesso!
Quando mia sorella è andata dal mio capitano con lo stesso documento, lui le ha chiesto quanti anni aveva mia mamma. “Sessanta” gli ha risposto lei – in realtà era molto più giovane.
“Ha già la sua età. Se muore non è così grave”. Sono dovuto restare al fronte.
Mio fratello Carlo, invece, era del 1922: l’hanno dichiarato morto in Russia, non hanno mai trovato il corpo. Faceva il fornaio qui a Villa d’Adda; il Duce non aveva richiamato la sua classe in Russia, ma è partito perché avevano bisogno di panettieri. Era nella compagnia “Forni Weiss”: non si è più saputo niente. Ho la fotografia nella camera dove dormo. Solo a Villa d’Adda 17 sono rimasti in Russia, a Carvico 16.

1945: Mazzola (in piedi, il secondo da destra) tra i partigiani a Bussoleno, Val Susa. Alla sua sinistra Frederik.
Sul Frejus mi facevano fare anche il portaordini e un giorno – chissà come – mi sono messo in testa di scappare, di venire a casa. Sono venuto via e mi hanno preso i partigiani, come raccontavo. Da lì è ricominciata la vita di guerra: un calvario. Fino a quella notte che mi ricorderò finché muoio.
Ero di guardia, con un mio socio: facevamo due ore a testa, due a dormire e due svegli. A un certo punto vedo come un gregge, sveglio il socio e gli dico: “te! Vieni fuori a vedere i pegore!”. Lui esce. “No ostia, iè mia i pegore, iè i fascisti, i tedesch, e ch’elle chi el…vengono su a prenderci!” Abbiamo avvertito il capobrigata, che dormiva. “Si salvi chi può, che qui diventa un macello!” ha urlato. E infatti è stato un macello, 43 morti.
Sono scappato insieme a Frederik, un russo, della mia stessa brigata, era il mio amico più fedele. Ci siamo nascosti in una specie di caverna. Da lì sotto vedevamo i tedeschi che passavano col mitra spianato; portavano uno stile legato sugli stivaletti a mezza gamba: ù coltel ch’el tajàa, e non guarivi più, perché aveva delle scanalature sulla lama che lacerano la carne quando viene estratto. Trattenevo il respiro, e pensavo ostia adesso i tedesch ci fanno fuori. E Frederik bisbigliava: “niente paura io avere cannone!”
Aveva in ma’ una rivoltella de set culp, una Steier. “Ma che cannone! Metel in del cul il cannone, che se buttano dentro una bomba an’sà a post!”
Sono passati oltre senza vederci. Non sembra vero a raccontarlo. A quell’età non davo importanza a queste cose. Le vivevo e basta. A desnof agn te pensaet mià alla morte. Invece a pensarci adesso, era brutta eh….
Da lì abbiamo cominciato a rifugiarci nelle case dei contadini, dove capitava: i tedesch e i fascisti schersavan mia. Aspettavamo gli americani, che non arrivavano mai; avevano già ripreso Milano. Alla fine sono atterrati a Rivoli, al campo di aviazione.
Sono arrivati pieni di scatole: scatole con la carne – una roba mai vista – scatole con la pastasciutta. Ci hanno radunati. Ci hanno dato da mangiare. E hanno preso ’sto mucchio di sigarette, un po’ ammuffite per l’umidità; hanno fatto una fossa e gli hanno dato fuoco! Mi piangeva il cuore! Per un po’ di muffa! Le avrei fumate eccome! Americani…
PIDOCCHI

1948, con le sorelle, a Candia Canavese, dalle parti di Chivasso.
Io ho ucciso solo un uomo. Un tedesco.
Quando venivano su i fascisti, con la mitraglia potevo ucciderne a centinaia, ma non mi sono mai azzardato: non perché non avevo il coraggio, perché sapevo che anche loro erano mandati dai comandanti.
Il tedesco che ho ucciso era un prigioniero: i partigiani l’avevano massacrato di botte. Mi faceva pena. I partigiani avevano le loro buone ragioni: i tedeschi ne hanno fatto di cotte e di crude, ma a me umanamente lui faceva pena. Dopo averlo picchiato l’avevano slegato e gli avevano ordinato di correre in un campo, così potevano sparargli come a un coniglio. Sono intervenuto prima. Appena l’hanno liberato gli ho sparato. Sto povero disgraziato ce l’ho ancora sotto gli occhi. Aveva una maglietta bianca sotto l’uniforme. E quando è caduto l’ho vista subito chiazzarsi di rosso. Si capisce che l’ho preso al cuore.
Pochi giorni dopo l’arrivo degli americani, abbiamo preso un camioncino che andava a Milano. Mia sorella abitava a Sesto. Da Milano a Sesto c’era il tram, il 31, e sono arrivato a casa sua.
Lei ha pianto, mi ha abbracciato, è andata al centralino a telefonare – non c’erano i telefoni nelle case – ha chiamato il comune di Villa d’Adda, e loro hanno avvertito mia mamma ch’ero tornato. Il papà non l’avevamo più, avevamo un padrino che era fatto un po’ a modo suo, sempre in giro per il mondo.
Ero stanco. Sporco. Mia sorella mi ha detto di fare il bagno mentre mi preparava qualcosa da mangiare. Madona me! Sono entrato nella vasca e dopo un attimo sono venuti a galla tutti ’sti pidocchi, ma belli grossi, che avevo addosso. Quasi non si vedeva più l’acqua.

Mazzola nel 1950, in sella alla sua RUMI 125 Super Sport, in via San Bernardino. Poi venderà la moto per pagarsi il matrimonio.